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1°. Una costante
Può sembrare una coincidenza, ma le conclusioni dei due romanzi di Eros Olivotto(1) si strutturano quasi specularmente, non solo per la trama sintattica ma, soprattutto, per le considerazioni generali affidate ai protagonisti.
Per il primo, Anna, il momento è particolarmente doloroso: ha appena perduto la madre (cui era molto affezionata) e questo secondo lutto (dopo la morte del figlio) la tocca profondamente. Soprattutto una cosa ora ricorda della madre: la sua quasi ossessione di “andarsene senza aver lasciato niente […] forse per questo mi parlava continuamente del tempo, mi pregava di non sprecarne un attimo, un solo istante.”(2)
Ora, al termine del romanzo, in una notte serena sulla spiaggia, attorno ad un falò, mentre le confidenze e gli scherzi si fanno più spontanei, Anna si apre agli amici e ai famigliari in un dialogo che si fa corale e tocca, quasi a ritmo libero, diversi temi: capire i fatti? “Quando accadono, siamo troppo preoccupati di viverli per poterli comprendere. In questo, soltanto il tempo ci può aiutare”, inteso come passato, anzitutto, perché “è di là che veniamo”; un passato che è stato prima di tutto infanzia, tempo del gioco, ma che ora è così lontano che quasi “vien da chiedersi se ci sia mai stato un… tempo del gioco.” […] “O piuttosto, se ci sarà mai qualcosa di diverso.”(3), ribatte Gianni.
La vita un gioco? Sì, ma iniquo, “dal momento che esso ci vede sconfitti in partenza”(4) risponde Marco; oppure, meglio, un mistero, non facile da cogliere ma ricco di significato, interviene Pepe, ispirandosi a Federico Garcia Lorca.
Le considerazioni si articolano concentrandosi sui due punti vita-tempo, due poli d’attrazione, che coinvolgono intimamente senza mai svelarsi totalmente, nell’unità dell’essere, dimostrandosi invece frammentati, slegati… Una sensazione che in pochi istanti porta Anna a rivedere “volti, gesti, voci e, con essi, il ricordo nitido, stranamente preciso, di immagini sbiadite, lontane”(5) della madre, di Ezio, degli amici…, in una sequela inarrestabile. E’ come un sogno e un cammino a ritroso, dal quale alla fine viene scossa dal ripetuto invito della figlia Sara: “Mamma, vieni! […] E’ una meraviglia, vieni!”(6). Per Anna, il tempo e la vita avranno ancora senso: in essi troveranno spazio la meraviglia e il suo impegno di madre.
E per Franco?
Egli non ha avuto lutti famigliari, ma anche lui è stato provato dalla morte del sacerdote amico e di Marta e Maria, due componenti della sua compagnia teatrale. E’ vero, ne son passati di anni dai primi due, ma cos’è cambiato nella sua vita?
Ora, anche lui, giunto piuttosto avanti nel suo cammino, si trova davanti ad un fuoco, quello del suo caminetto; nella sua abitazione c’è anche la moglie Ada e l’amica di lei Laura, ma non c’è in quel momento dibattito né coralità alcuna: tre individualità, il dialogo si riduce a due battute “di servizio”, perché tutto è affidato al moto interiore dell’animo di Franco, che in quel momento “rivede” e “ripensa” ai vari incontri (dal figlio Lorenzo ai nipotini, ai suoi compagni di teatro – in particolare a Sante e a Maria - , ma pensa anche “a Dio, ora così vicino, e all’ineluttabilità della morte: aspetti diversi di un problema che nessuna scienza sarebbe mai riuscita a risolvere”; pensa anche alla poesia e alla sua capacità rivelatrice; “da ultimo gli apparve il mare, vasto e abbagliante e, come Dio, raccolto nel mistero della sua profondità.”. Dopo un’ultima intuizione inerente al gatto, immobile davanti al fuoco, di nuovo, come in un lampo, ripensa a se stesso “e alla distanza che lo separava da quanto era stato.”(7)
Ascesi? catarsi? tensione verso l’avvenire?
Forse un po’ tutto di questo, ma specialmente un atteggiamento di attesa. Aspettando chi? che cosa?
Il romanzo finisce qui.
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(1) E. OLIVOTTO, Nonostante tutto, L’Autore libri, Firenze 1996. Id., Il tempo minore, Perosini, Verona 2001.
(2) Id., Nonostante tutto, pag. 45.
(3) Id., Nonostante tutto, pp. 46-47 (passim)
(4) Id., Nonostante tutto, pag. 48.
(5) Id., Nonostante tutto, pag. 50.
(6) Ibid.
(7) Id., Il tempo minore, pp. 86-87 (passim).
2°. Una storia come tante
Non personaggi importanti, non vicende eccezionali, non drammi fuori dal comune, ma situazioni coinvolgenti persone ordinarie, con i loro sentimenti e passioni, i loro slanci e delusioni, le loro attese e speranze.
Ci si potrebbe, allora, chiedere dove stia l’esemplarità o, se si preferisce, l’emblematicità del racconto, che dovrebbe giustificarne il titolo di tempo minore. Poiché, alla fine, è abbastanza chiaro che la vita condotta da Franco (in quelle due tranche disuguali in cui si presenta) appare un tempo forse più trascorso che vissuto e, comunque, speso non con quell’intensità e intenzionalità che egli intravede a volte come possibili; minore, quindi, rispetto ad un tempo più pieno. Se, poi, si volesse passare dall’ambito qualitativo-temporale a quello perfetto-atemporale o eterno, allora nel romanzo gli spunti e le giustificazioni ci sono; anzi, in ultima analisi, forse è proprio questa la prospettiva dell’autore.
Il racconto, dunque, si apre con un annuncio di morte, poi avvenuta (quella del sacerdote amico di Franco); riferisce, poi, verso la metà, quella di Marta, l’amica di Sante e si conclude ricordando che anche Maria, l’amante di Franco, ha perso la vita, in un modo e in una circostanza inattesa. Non ingannino questi tre riferimenti funebri, quasi il romanzo fosse impostato su una trama di morte e non di vita; quelle tre figure, infatti, sono state per Franco molto significative e la cadenza della loro dipartita altro non fa che scandire il ritmo di un racconto che, lentamente, facendosi metafora, intreccia momenti e percorsi propri e collettivi in quell’unità inscindibile che è costituita dalla diade vita e tempo. Qualora, poi, si ponga mente al fatto che i protagonisti configurano la propria esistenza sul profilo della professione di attori teatrali, il messaggio si fa ancora più significativo: vita e recitazione, forma e apparenza, volto e maschera s’intrecciano in quel gruppo, le cui esistenze manifestano ambizioni, compromessi, rivalse…, in una ricerca continua di felicità o, meglio, di senso appagante della vita.
Franco, che sembra ispirarsi ai più sani principi ma vive un ménage famigliare a tre come una cosa normale, fin dall’inizio si è sentito dire da quel sacerdote suo amico che solo con la morte Dio ci restituirà “quanto da sempre ci appartiene”, per questo “nella morte non c’è errore”(8). Tuttavia, se quella è la prospettiva, è molto importante vivere i momenti precedenti, tutti, anche se l’esperienza ci documenta che facilmente li perdiamo “affidandoci ad altro” e così smarriamo noi stessi, non tanto perché ciò che avviene sia attribuibile al caso o a qualche entità o forza fuori della nostra volontà, quanto perché il mistero è così grande che “una vita non è sufficiente”(9) e anche perché noi stessi spesso ignoriamo ciò di cui abbiamo veramente bisogno, essendo privi di saldi riferimenti.
Certo, non è che dobbiamo vivere sulla corda dell’ansia: Ada, la moglie di Franco, riesce anche a “scherzare”, specie quando si trova con la sua amica Laura, ricercata soprattutto nei momenti difficili: “Rilassandosi pensò a Laura, che la stava aspettando. Come sempre, avrebbe riso con lei dei suoi guai, avrebbe scherzato e inneggiato alla vita. Come sempre, avrebbe capito.”(10)
A volte si intuisce che certi atteggiamenti sono sbagliati, come dichiara a Franco l’amante Maria: “E’ curioso […] il nostro modo di pensare al tempo. Ci ostiniamo a individuarne il fascino negli oggetti di cui ci circondiamo, dei quali andiamo orgogliosi, mentre ci riesce così difficile scorgerlo in noi, nei segni che solcano i nostri volti, nelle pieghe dei nostri sorrisi.”(11); come pure è sbagliato affidarci solo al ricordo: “Aveva continuato dicendo di sé e della propria vita, soffermandosi sul fatto che quando il suo corpo fosse invecchiato, e avesse mutato aspetto, si sarebbe affidata al ricordo, soltanto al ricordo.”(12)
Che fare, dunque?
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(8) Id., Il tempo minore, pag 12.
(9) Id., Il tempo minore, pp.19-44 (passim).
(10) Id., Il tempo minore, pag. 50.
(11) Id., Il tempo minore, pag. 52.
(12) Ibid.
3°. Una proposta
Dal “bilancio” Franco non esce soddisfatto, e non poteva esserlo; tuttavia due punti qualificano quel momento: l’atteggiamento finale di attesa e il ricordo di Sante.
“Aspettare, ripeté, non era da tutti, aspettare.”(13), erano state le ultime parole del mendicante, sconosciuto, al quale Franco un giorno aveva dato un passaggio in auto e anche dei soldi; era uno strano individuo, quel mendicante, diretto ad una lei, quasi l’incarnazione della bellezza, e aveva fatto strani discorsi, come quello dell’amore verso la gente: “La gente! La si dovrebbe amare, la gente. Seduta nei tramonti accanto alle porte, perduta nel vuoto delle strade, sola. Era bella la gente, bella da togliere il fiato.”(14), o quello sul senso delle cose: “Poi parlò delle cose, del fondo delle cose, cui non appartengono il bene e il male, questo lui, come si chiamava, Franco, questo lo avrebbe certamente ricordato, della pienezza dei giorni, del frantumarsi del tempo e della sua insostenibile lentezza.”(15).
A quell’incontro, che aveva lasciato Franco piuttosto scosso, più avanti ne era seguito un secondo, in altra circostanza, e anche allora Franco non era riuscito a capire l’identità di quell’uomo, che invece chiamava Franco per nome…La conversazione aveva toccato altri punti: chi è l’uomo? dipende da ciò che realizza o dalle sue intenzioni e progetti? perché è così insaziabile?
Una serie infinita di domande, simili a quelle che Franco, Ada, Maria, Sante… si erano posti chissà quante volte, per capire – se mai fosse stato possibile – cosa sia veramente la vita, dove vada il mondo, quali tracce possano guidarci… Ad esse le risposte erano state le più diverse ma nessuna era stata ritenuta esatta (né Dio, né l’arte, né l’amore, né la scienza…), data la complessità del mondo moderno. Fu quello il momento di Sante, il più vecchio (e forse il più saggio) della compagnia. Al contrario della sua amica Marta, che, “prigioniera del ricordo della propria bellezza, aveva ingaggiato per anni un assurdo duello col tempo, conferendo via via alla propria persona le sembianze di un idolo grottesco”(16), egli era convinto che proprio l’osservazione della natura (dove tutto tende ad esaurirsi) ci offriva un punto fermo: la conoscenza della vita risulta impossibile per chi teme e si ostina a ignorare la morte. E, dopo la natura, Dio: gli uomini moderni sembrano aver perso il “senso di Dio” e così non possono cogliere il divino presente nella realtà.
Non che lo colga quell’altro individuo strano, che affiora alla memoria di Franco in un momento particolare, in compagnia di Lorenzo; ma l’accenno a Cepa, che ha scelto di vivere fuori del consorzio umano “in un capanno abbandonato sulla riva del fiume[…], che campava di elemosine”(17), disposto solo a stare e giocare con i bambini, che danza liberamente…, non dovrebbe essere trascurato nell’economia del racconto. In fondo, è un richiamo a dimensioni del vivere oggi sacrificate dal frenetico ritmo e dai nuovi ideali del successo facile ma spesso precario (Cepa detesta “il mondo incomprensibile degli uomini)… Il “senso di Dio”, sembra di capire, è stato smarrito con la perdita del “senso della natura”, vista ormai solo come risorsa da sfruttare e bene da consumare e non più come madre e compagna di vita.
Con Sante e Cepa sembra quasi di tornare alla proposta dell’ultimo Pirandello, quello de La nuova colonia, di Lazzaro, dei Giganti della montagna, il cosiddetto teatro dei miti, nel quale Pirandello, dopo l’insistita e spietata disamina della condizione umana approdata ai Sei personaggi, cerca di fare un passo in avanti: ci troviamo, ancora una volta, nel contesto della scena e della finzione teatrale, l’uomo è diventato (totalmente?) un personaggio, chi ne tira le fila? chi manovra la macchina? chi si diverte a far giocare quell’ “animale razionale”? e, ancora, in quale direzione si muove il tutto? è possibile fare altre scelte? soprattutto: la soluzione, se ce n’è una, è dentro o fuori dell’uomo? è in questo orizzonte terreno, in questo “tempo minore”, o in un “oltre” e in un “dopo”? è possibile che il “mistero” non si identifichi con l’assurdo ma “riveli”, alla fine, il vero senso dell’uomo e della sua storia?
Franco, alimentando il fuoco e accingendosi ad “aspettare”, potrebbe, allora, indicare non una “scelta passiva”, bensì una precisa volontà di andare fino in fondo, cosciente che, se è vero che il futuro dipende da noi, è anche vero che non dipende “solo” da noi, almeno in parte non solo non ci è imposto ma ci è “donato”.
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(13) Id., Il tempo minore, pag. 33.
(14) Id., Il tempo minore, pag. 32.
(15) Id., Il tempo minore, pag. 33
(16) Id., Il tempo minore, pag. 43.
(17 )Id., Il tempo minore, pag. 28.
4°. Racconto o metafora?
Il racconto di Olivotto entra subito in medias res e si mantiene sul piano dell’essenzialità tanto dell’azione quanto dell’espressione; a volte si direbbe addirittura “avaro”, data l’estrema scarnificazione sia della fabula sia del dettato. Ciò è evidente in particolare nei dialoghi, più serrati e asciutti ancora rispetto a Nonostante tutto e, in ogni caso, pregni di carica allusiva e suggestiva. Carica che caratterizza anche le brevi e rare “pause” in cui l’autore ci concede scorci e momenti descrittivi o di raccordo o anche solo di informazione, magari attraverso significativi flash-back. Tutto ciò per indicare che all’autore risulta piuttosto secondaria la vicenda, come pure la sua collocazione spazio-temporale: in quale paese o città o regione si snoda l’azione? in quale periodo storico? quale eventuale rilevanza economica o politica o sociale hanno i protagonisti, al di là della loro professione di attori? Queste e altre domande simili non trovano risposta; semmai, diventano più significative le annotazioni circa il tempo astronomico, quello delle stagioni, riflesso e indicatore del tempo dell’anima. Momento stagionale che a volte si combina con quello del giorno, del dì o della notte, attraverso essenziali pennellate.
Si veda, a conferma, l’apertura: un primo tempo per il viaggio a piedi di Franco verso il parroco, un secondo tempo per l’incontro e un terzo per il ritorno a casa; più esteso il secondo, rivelatore dei due protagonisti, uniti da viva simpatia, da amore di lunga data, che si fa ancora più coinvolgente quando il prete gli confida la triste notizia, riscattata però da una riflessione comune: Dio ora si è fatto più vicino e con la morte ci donerà ciò che, in fondo, “sempre ci appartiene”(18).
Stilisticamente si noti l’incedere più lento e descrittivo del primo, una lentezza funzionale a predisporre Franco (e il lettore) a cogliere la ragione di quell’invito, che poi giunge quasi fulminea al centro della breve conversazione: “Io sto morendo”(19). E’ un momento solenne, ulteriormente esaltato dal tramonto di quella fredda giornata invernale; un momento di dolore, anche di solitudine, ma pure di ferma speranza, quasi personificata poi in quel “gruppo” dell’anziana donna e del sacerdote che lentamente si sottraggono allo sguardo di Franco “oltre l’entrata della sacrestia”(20).
Sono accenni semplici, essenziali, che prolungano il loro spessore semantico nella pagina bianca, che obbliga il lettore ad un rapporto diverso dal solito: non può, non deve, avere fretta, essendo anche lui chiamato a “scrivere” un testo che cresce per strati e cerchi concentrici, attorno ad un nucleo dove Franco e Ada e Marta… potremmo essere, a turno, ciascuno di noi.
Il tempo minore conferma, ancora una volta, una tendenza di gran parte della letteratura odierna: volutamente “breve” e soprattutto “selettiva”, lascia volentieri le considerazioni o visioni “sistemiche” alle pur rare ricerche dei filosofi; essendosi il mondo, sempre più complesso, fatto di giorno in giorno più complicato, è già molto attivarsi per contribuire a diradare le nebbie che rendono la rotta più difficile e insidiosa di un tempo; chissà che laggiù non ci sia il faro.
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(18) Id., Il tempo minore, pag. 12.
(19) Id., Il tempo minore, pag. 11.
(20) Id., Il tempo minore, pag. 13.
Albignasego, 24 agosto 2004
Giuseppe Zamarin