da “ VITA TRENTINA”, mercoledì 10 agosto 2011
Il festival internazionale Poesia e poeti di Alpe Adria, che si terrà dal 27 al 29 maggio a Caorle, è giunto ormai alla quarta edizione. Tra i poeti dei diversi paesi (Italia, Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, Cecoslovacchia) che partecipano alle letture e agli incontri culturali c'è una delle voci maggiori della poesia trentina, Eros Olivotto, che abbiamo intervistato.
La rassegna 2011 dei poeti di Alpe Adria presenta esponenti dell'area un tempo chiamata mitteleuropea. Quali sono i più importanti retaggi poetici che quella cultura ci ha lasciato?
Credo che nel caso della poesia Mitteleuropea non si possa prescindere da Rilke. La sua ricerca linguistica e concettuale, il passaggio dalla poesia del soggetto a quella dell'oggetto, la convinzione che i versi non siano, come comunemente si crede, pura espressione di sentimenti ed emozioni, bensì esperienze; insomma, credo che Rilke costituisca il paradigma necessario all'affermarsi di molte delle tematiche proprie del verso contemporaneo.
Possiamo ancora parlare, oggi, di uno spirito culturale della Mitteleuropa?
No, ritengo che lo spirito culturale della Mitteleuropa appartenga a una stagione irripetibile, cui dovremmo comunque guardare come a un cono di luce in grado di accogliere e rischiarare il nostro tempo poetico.
In che modi, secondo lei, gli incontri tra poeti ed artisti di paesi e culture diversi possono stimolare il dialogo culturale?
Da sempre l'incontro tra paesi e culture diverse costituisce la fucina capace di dare vita al magma necessario a una nuova definizione del mondo e di noi stessi. Per cui sì, sono convinto che il festival internazionale di Caorle costituisca una reale occasione di scambio e di crescita culturale e che dobbiamo essere riconoscenti a chi lavora e si adopera affinché esso continui ad esistere.
Infine, quali tra le sue poesie ha scelto di leggere in questa rassegna?
l'influenza del momento e del tipo di atmosfera che incontrerò sarà il fattore decisivo nell'indirizzarmi verso la scelta di alcuni testi, piuttosto che di altri.
Enrico Grandesso
da Quaderni - luglio-agosto 2008
TRA NATURA E TEMPO: L'UMANO, IL DISUMANO.
Il tempo ci svela: siamo intessuti di tempo, il tempo è il nostro modo di sentirci coperti per affrontare nuove sfide, per non essere trascinati dal volere della morte, sempre in agguato, oltre il fondo.
Se fermiamo il tempo abbiamo l'istante, riduzione estrema senza configurazione:
Ogni volto lo stesso volto,/ogni cielo,/lo stesso cielo. /Nulla ,/che non sia stato. /….
(Ogni istante), come se tutto si trattenesse in una parentesi senza accrescimento.
Se liberiamo il tempo abbiamo le stagioni dell'Uomo e della Natura, il passaggio dal dolore al sollievo, senza esclamativi, in una concezione della realtà dove non c'è colpa, ma solo il calore di una disperata pazienza:
Tutto il tempo di questa attesa,/ di queste onde desolate. / Tutto il peso di questo cielo. / La fatica/ di questo mare. ( Il naufrago).
Portate un abito azzurro!/ La luce ha lasciato i suoi occhi,/ giovani ombre/ ne vegliano il sonno/…..( Giovani ombre).
Il tempo lega l'Uomo alla Natura così tanto che non si parla dell'uno senza l'altra:
……O madre,/ non sapevamo del maggio!/ Né della grazia di questa stagione,/ se, giallo,/ il grido dell'autunno si disperde.(Novembre).
…..Tra vie concitate,/grandi alberi tristi,/qui vive l'uomo.(Qui).
La Natura lascia in noi un'impronta come quella lasciata da chi ci dà o che ci ha dato tanto affetto:
Come il sole sorge nella luna/ o un'impronta vive nella roccia. / Così/ chi ci manca è con noi. /……(Un'impronta).
Versi pregnanti dove, a livello formale, le pause sono sostenute, oltre che dall'andare a capo, da ripetute virgole. Nella poesia contemporanea le virgole sono spesso considerate un elemento di separazione inutile, per Eros Olivotto, invece, queste servono a non farci sfuggire dal suo gioco di biglie dentro la pista, come dire: ascoltami. Così le virgole diventano un linguaggio che ci affida alla riflessione e costringe a fermarsi per entrare nel cuore del poeta.
Senza complicazione letteraria e volutamente scarsi di metafore, i versi di Eros Olivotto celano un'intricata inquietudine: la memoria visita e rivisita, evocando dal passato la frantumazione materica, cercando di ricomporla, a volte con un eccesso di maturità e mancanza di abbandono, come se le parole fossero dette da un padre che vuol ricondurre l'esistenza ad una visione più accettabile, nascondendo la rabbia, gli inganni, le menzogne, la disobbedienza:
Non chiedere di non cadere. / Ascolta l'uomo, / il suo dolore. / Alcuni pesi sono sostenibili. / Non chiedere di non cadere.( Alcuni pesi).
Nella poesia "Valpolicella" il poeta rivisita la Natura slegandola dal tempo, conservandone l'antico fascino di Paradiso degli umili, anche se ormai violato, perché nella terra riposa il respiro del tramonto, cioè il respiro della Memoria: un atto religioso per eccellenza!
Poche le "zone immaginarie", come se la fantasia avesse perduto la coloritura, fosse rimasta nel "fendente della luce", ovvero nella ragione. Nella ragione, le parole scavano e non lasciano "residui", il dire acquista una compattezza nervosa:
Ora l'uscio è socchiuso. / Nel fendente della luce,/ al riflesso del mattino,/ la vita sognata,/ i passi che si persero,/ le nostre parole. (L'uscio).
Dove resta, il sogno non è legato all'aspettativa, ma al desiderio di conservare l'amore per la vita, intesa in senso lato, e per le persone più care.
Dedicata alla moglie e al figlio, la lirica "Ieri" è un canto riconoscente che ha l'estensione di un diapason, dalla misura di un respiro arriva fino ad accordarsi con i toni più alti del cuore:
Pensavo ad un tempo senza dolore, /prodigo di anni, di sogni,/ a stagioni sicure ./ Udivo nel buio il vostro respiro. / Smisurata,/ la notte echeggiare.
In tutta la raccolta poetica il tema dell'istante appare molte volte, non solo in riferimento alla fugacità e alla frammentarietà insanabile dell'esistenza, ma anche come istante prezioso per accordarci con il Tutto:
In una stanza di fortuna,/ leggo distratto. / Ché il vaso delle arance/ riflette la luce della luna. (Stanotte).
Bastano questi versi di rara bellezza per sentire l'anima di Eros Olivotto, la sua parte di energia pura, quasi una poesia Zen che dice: dobbiamo mettere da parte parole e letteratura e cercare solo la Verità.
L'istante dunque come varco per accedere a microscopici universi contigui, un canto aurorale all'origine della vita, un invito per Noi che a volte giochiamo con la vita in un rapporto invertito:
Noi, /senza sogni né dei,/ principio sommario, / impreciso. / Oscura ragione. / Qui,/ora. / Indifferenti all'aurora.
AnnaMaria Cielo
da Corriere della Sera>Blog>Poesia - mercoledì 30 aprile 2008
EROS OLIVOTTO E IL DRAMMA DEL TEMPO CHE CONDUCE ALL' "ISTANTE" SUPREMO
Della seconda raccolta di poesia di Eros Olivotto Ogni istante (2007, pagg. 85, Euro 13), da poco proposta dall'editore Perosini nella curata collana Paradigmi (che si gloria di ripescare grandi nomi dall'oblio, come sottolinea nella prefazione Giampiero Neri, autori come Umberto Bellintani o Biagio Marin), colpiscono tre cose: la semplicità, la concisione e il tema di fondo, cioè il "tempo". Già il titolo rivela la direttrice da seguire; "ogni istante lo stesso istante dice l'ultimo verso della poesia che offre il titolo al libro. Come dire: ogni momento è nuovo ma già vecchio. Il tempo passa inesorabile portando modificazioni nelle persone e nel mondo, ma in fondo tutto resta com'era. I richiami all'antichità e ad altre epoche con i relativi miti connotano la particolare visuale. Il passato è presente; il presente riassume il passato. Il "tempo" di Olivotto non registra il futuro. Ogni speranza o desiderio non è prospiciente sul futuro, resta qui, comprende tutti i vissuti memorabili, ma non progetta, perché anche il futuro in "ogni istante" è già presente.
Non è solo questo, però. Per il poeta non c'è "nulla,/ che non sia stato". Quindi, cosa scoprire? Tutto è già qui, e viene da lontano. Si tratta allora di scandagliare in ciò che già è stato ed è, e scegliere gli elemenmti più congeniali e applicarli e svilupparli sulla propria misura di poeta, di persona, di cittadino.
Nella semplicità del dettato, nella scansione degli "istanti", Olivotto esprime anche un'assunzione di responsabilità del vivere. Non c'è esultanza, ma partecipazione e anche sofferenza. Il tempo presuppone la scadenza, la finitezza: e lì, invisibile e reale, c'è in agguato la morte.
Olivotto non è solo in questo viaggio, che aveva già cominciato nel libro d'esordio (in poesia, perché è anche romanziere) Sipari (stesso editore, 2003), si trova in folta compagnia. Quale poeta non ha fatto i conti con il passare del tempo, da Omero in poi? La novità di Olivotto quindi non è il tema prescelto, piuttosto è - usando una parola cinematografica - il suo "trattamento". Una lingua chiara, una versificazione breve, scandita, ritmata. Si tratta di rapidi quadri, vere piccole guaches senza troppi colori, quasi in bianco/grigio/azzurro. Il "tono sommesso" non è sciatteria. Anzi, è pudore, consapevolezza, sobrietà, Piccole confessioni prima di tutto a se stesso. "Ho sfiorato/ i luoghi del dolore./ Quanti/ di cui non sapremo./ E i sogni,/ le attese,/ l'incanto degli abbracci./ La vita mutata in una stanza./ Le madri, le preghiere, il pianto". Ci sono cose non dette, niente urla. Lasciate lì, nei cuori che le conservano. "Tranne noi/ l'estate./ Ma tu,/ un dolore senza parole,/ due mani vuote./ Ora il tempo è nel tempo./ Il tuo canto,/ lontano". "Nella luce di un tempo senza gioia/ torno a te, che sceglievi il silenzio,/ perché ospita parole diverse,/ voci che mai ci avrebbero perduti". Nel grande mare del tempo, non ci sono naufraghi: chi perisce, chi trova uno scoglio e si salva. E tutti soffrono. "Tutto il tempo di questa attesa,/ di queste onde desolate./ Tutto il peso di questo cielo./ La fatica di questo mare". E allora? "Seguimmo/ ... / le leggi dell'istante,/ l'ordito di una sorte già decisa".
Leggiamo due brevi testi evocativi, in cui la poesia diventa "ricostituente dell'esistenza". La poesia è l'unica che potrà resistere al tempo.
Piccola stanza
Quando mi chiederai una poesia,
nella piccola stanza dove noi
leggiamo, a volte per ore, senza
parlare, e sembra chiaro e vicino
il cielo, con tono sommesso dirò
dei versi. E la mia voce, sorta
dal silenzio, ti scenderà nel cuore.
Quanto vive
Rimani, poesia,
quanto vive
trattieni in me.
Tutto ciò che vive
dentro agli angoli del mondo,
nel coro concitato delle voci,
dove a noi
si mostra la bellezza.
Eros Olivotto da Ogni istante (Perosini, 2007)
La conclusione è una sola, senza appello: "Chiedevi se fosse rintracciabile/ l'ordine del caos, un possibile/ piano nel verde oscillante all'intorno./ Il ritmo di un simile frastuono./ ... / E tutta quella morte,/ che sempre sta con noi./ Quella morte così vera,/ così viva". Non c'è scampo. Il tempo porta lì. Il punto è come ci si arriva, che cosa accadrà in quel preciso "istante"? Il quesito rimane ancora, da sempre, senza risposta.
http://poesia.corriere.it/2008/04/della-seconda-raccolta-di-poes.html
Ottavio Rossani
da “Trentino” - Cultura e società - martedì 22 aprile 2008
OLIVOTTO: POESIA COME ANTIDOTO AL PENSIERO UNICO
Oggi Eros Olivotto presenta, nella Sala Affreschi della Biblioteca Comunale di Trento (alle ore 17.30) la sua seconda raccolta di poesie, uscita ancora per i tipi di Perosini: "Ogni istante" (interverranno anche Carla Gubert ed Elena Dai Prà). Lo scrittore alense, classe 1950, un passato da insegnante, ha il grande dono di saper sollevare il velo opaco che ricopre le cose.
Disvelando nuovo senso e nuove ragioni esistenziali. Forse per questo gli incontri con lui sono sempre molto affollati.
Olivotto, il tema del tempo è leit motiv delle sue poesie, ma è un tempo dilatato, estraneo a quello cinematografico della letteratura moderna ...
E' il tempo della dimensione interiore, in cui non esiste prima/ora/dopo, perché tutto affiora contemporaneamente, senza scansioni lineari. E tempo sferico. Lento, perché la lentezza presuppone possibilità di riflessione: rallentare il passo ti fa avvertire che non sei il centro di niente, ma fai parte di un tutto.
Al "tempo minore" ha dedicato anche un romanzo, nel 2001.
Del tempo mi affascina la possibilità di riportare alla luce il senso della continuità, della memoria, chiavi per leggere la vita. Se ci si allontana ci si appiattisce, si perde d'intensità. Con tutto l'affanno che ci anima, quello che ci attende è il fatto che usciremo dal tempo. E questo non lo considero disperante, mi fa dire che amo la vita "anche" in virtù di questo.
Non teme la morte ?
No, quando non esisterà più, esisterà altra vita, altro cielo, altro mare e io sono semplicemente grato del dono di poter partecipare.
Quando compone ?
Spesso giro a piedi lungo i fiumi; l'acqua è la mia riserva di immagini. Ma, poi, a mettenni la voglia di scrivere, è la pena. Posso sentire la sofferenza anche in un'ombra in uno scorcio.
È male di vivere ?
Non credo, è com-passione, partecipazione, possibilità di percepire che, per necessità o per destino, vi sono uomini che non hanno modo di distinguere tra la loro vita e "la" vita. Se non si discerne tra le due, ci si può perdere. Allora si vive in modo rancoroso, in funzione di quanto non si ha.
Tutto questo le fa scattare la voglia di scrivere ?
Sì. perché anch'io ho sofferto in questa maniera, un tempo.
Luzi, Merini, Pessoa, Neruda, tra i poeti che cita in esergo, quale ama maggiormente ?
Amo Emily Dickinson per la sua vita, la sua ricerca della solitudine intesa non come fuga, ma come stato di necessità per leggere il mondo. Lei sa agire bene nella sospensione del tempo lineare, è evocativa, simbolica, rivelatrice. La più grande definizione di "forza" che ho letto, è sua: la forza è sofferenza tenuta a freno con la disciplina. Il suo pensiero va oltre la stessa poesia, è etica. Sono d'accordo con Ingeborg Bachrnann, grande poetessa austriaca: il compito dello scrittore è etico, è dire il mondo in modo diverso da come lo ha trovato detto.
Alda Merini pensa che la vita sia di preparazione alla morte e che sia sostenibile solo se si rinuncia alla felicità. Lei cosa ne pensa ?
Secondo me la vita ha in sé il tipo di energia che ci consente di viverla per quello che è, noi dobbiamo semplicemente rimanerle fedeli.
Dunque non è d'accordo con Merini.
No, c'è dentro di noi qualcosa di irrinunciabile e la vita è splendida opportunità, viaggio.
Merini dice anche che il poeta è matto.
lo lo considero assolutamente savio; offre un modo diverso di affacciarsi alla vita, di intendere le cose. Mi affascina quanto dice Heidegger: il poeta è la più inutile e pericolosa delle creature. Penso sia inutile perché distratto dall'aspetto empirico della vita, pericoloso perché libero, estraneo al pensiero unico.
In prefazione Neri sottolinea lo stile colloquiale della sua poesia.
Ritengo che uno dei compiti di chi scrive sia quello d'essere accessibile. Ogni sorta di esclusione implica un giudizio e secondo me ciò che vale é scevro da ogni sorta di giudizio. La grande poesia non giudica. Mai.
Anna Maria Eccli
da "PRIMA PAGINA" - novembre 2007
"CON IL GERME DELL'ESSENZA" :
"Ogni istante", seconda raccolta poetica di Eros Olivotto, riprende e approfondisce la precedente (Sipari, 2003), dove l'autore, confessando di aver cercato la vita, riconosce di avvertire pace nell'intimo pur senza aver compiuto il proprio cammino.
Ma, ha ancora senso scrivere poesia oggi? Non sembrerebbe avere dubbi il poeta, che dentro di sé avverte urgente il dovere di fedeltà ad un mandato, quasi un "ministero": è sufficiente leggere "Chi mai", il testo posto all'inizio del nuovo libro. Con quale gioia egli ha ricevuto "il dono", ospitando nella sua casa la poesia, giunta del tutto inattesa: il frutto di quella visita e di tale sosta scaturisce in un crescendo che esprime la massima esaltazione in quel "Grondava il mio cuore/come i muri di maggio/cascate di rose."
Olivotto si conferma attento alla voce del dolore, agli echi provenienti dall'alto, ma soprattutto a Colui che spesso si pone al nostro fianco senza che noi ce ne accorgiamo. Da qui testi che privilegiano a volte l'io, a volte il tu, spesso il noi, rifacendosi al passato o guardando il presente, alternando al momento descrittivo quello riflessivo, talora resi in modo icastico.
"Che sarà dei tuoi sogni? Chi serberà la traccia?" si chiede in "Lagorai". Domande che progressivamente otterranno tentativi e frammenti di risposte, fino all'intenso "Passerò", quando il verbo "lasciare", seguito da cinque brevi ma precise connotazioni, non permetterà alcuna ombra di dubbio: è l'esilio, il percepire che tutto di noi se ne deve andare, separarsi.
Il poeta rivela un'attenzione particolare a quel segmento temporale che comunemente chiamiamo vita e che, si intuisce, a suo giudizio più correttamente dovremmo indicare come prima fase della vita, di cui ci offre un'analisi articolata, lineare e discreta con una scrittura giocata sulla metafora e sull'analogia. L'essenza: tale è il germe del comporre per Eros Olivotto.
Giuseppe Zamarin
da “L’ADIGE” - Cultura e società - sabato 20 ottobre 2007
IO E LA POESIA, NEL MONDO
Dopo “Sipari” (2003), Eros Olivotto è, con “Ogni istante”, alla sua seconda raccolta poetica. L’esordio è stato nell’autunno del 1995 col romanzo “Nonostante tutto”, cui ha fatto seguire, nel 2001, “Il tempo minore”. Sempre con notevole interesse da parte di critica e pubblico.
“Quello che scrivi deve esprimere la vita, - dice subito Olivotto, dando voce a qualcosa di necessario, che non ce la fa ad aspettare - è il racconto di una ricerca interiore. Esprimere un’esperienza tua, intima. Dentro di noi c’è la mappa di quello che siamo e i versi sono la possibilità di agganciare tutto questo. Non è vero che la poesia è solo ciò che si scrive; ciò che si scrive è l’esito di un mondo. Di più: la poesia è il nostro modo di stare nel mondo, in mezzo a uomini e cose. La sfida che devi vincere è di natura linguistica: alla fine della strada del linguaggio (ammesso che ci sia una fine), se davvero l’hai percorsa, incontri il tuo linguaggio. E’ quella la tua cifra. Dico no, invece, al linguaggio inteso come arma: se la ricerca linguistica è reale, attenua le distanze e ti avvicina agli altri e a te stesso. Invece il mondo fa della cultura un’arma. L’uso indiscriminato da parte dell’istituzione (e degli autori istituzionali) del linguaggio tecnico non fa che escludere. Il linguaggio non deve servire a distinguere, ma ad unire, avvicinando chi è senza voce. E’ quasi evangelico. Per un autore c’è l’obbligo morale di essere accessibile: semplice e al riparo dal giudizio. Se quello che dici non entra e non provoca nell’altro un cambiamento, allora non serve.
“Ogni istante”: in che punto del tuo cammino interiore si trova?
“Quello che vedo è un salto: dall’io al noi. Ritengo di essere entrato nello
spazio in cui ti senti uno dei tanti, in cui sai che sei parte di un tutto. Che non c’è differenza tra te e gli altri. E’ il punto che ha descritto Seneca: vai con le cose perchè esse ti accompagnino. Se le rifiuti, ti trascineranno. Non c’è niente che va rifiutato, unica eccezione il male. Quando vedi il male serve una precisa scelta etica, ma non per esorcizzarlo. Perché, se scrivi, devi esplorare anche quello”.
“Le tue poesie, in Sipari, si muovono dentro un mondo d’infanzia. E’ ancora così?”
“ Nell’istante in cui scegli realizzi che tutto ciò che scrivi non viene da te, ma attraverso di te. Il che spiega come tu sia una sorta di involucro all’interno del quale si aggirano,voci, suoni. Tuo padre, tua madre, chi è stato. E anche chi non è stato. Il fatto di scorgere questo è un dono, che implica una grande responsabilità. Nei miei incontri vedo, a volte, persone che si commuovono. La possibilità che la gente riscopra il senso di ciò che le appartiene, di ciò che è, di più profondo. E’ questo, credo, il fine ultimo dello scrivere.
Michele Comper
da “I QUATTRO VICARIATI” - Giugno 2007: Breve incontro con Eros Olivotto
Incontri, corsi, dibattiti; sono soltanto alcuni degli impegni che Eros Olivotto si trova a dover affrontare, affiancando alla sua attività di autore quella di promotore culturale per diverse biblioteche e associazioni del Veneto e del Trentino. Nel 2005, con la collaborazione di Elena Berti, dà vita , a Mori, alla “Casa dei poeti”, uno spazio di presentazione che, accanto ad autori di rilevanza nazionale, propone al pubblico i versi e i volti dei più interessanti poeti della nostra regione. Per la biblioteca di Ala cura, annualmente, una rassegna di poesia contemporanea, in cui presenta l’opera dei maggiori esponenti del ‘900 e, dal 2005, “Sulle ali della poesia”, un convegno che prevede la partecipazione di artisti, critici e addetti ai lavori. Per la rivista “Totemblueart”, dal 2005, è il responsabile per la poesia, nell’ambito dell’appuntamento estivo della “Giornata dell’artista trentino”. Dopo “Nonostante tutto” (1995), “Il tempo minore” (2001) e “Sipari” (2003), pubblica, nella primavera del 2007, “Ogni Istante”.
Un nuovo libro?
Sì. “Ogni istante”, una raccolta poetica, ancora per i “Paradigmi” di Perosini.
Perchè la poesia?
Per il potere del suo linguaggio.
Che consiste?
Nella capacità di avvicinarsi a ciò che potremmo definire il cuore della realtà, l’essenza delle cose.
Non è… difficile?
Tutto il pensiero e l’arte contemporanea si muovono in questa direzione.
Cioè?
Nell’individuazione di un oltre, di un altrove. C’è un grande bisogno di spiritualità. “Io sono il Dio delle cose visibili e delle cose invisibili”, ricorda?
Una strada iniziatica?
Non direi. Quanto serve è un atto di fede, che consiste nell’accettare di credere di non poter spiegare tutto. C’è una parte dell’esistenza, della realtà, che è misteriosa. Qui il pensiero logico, razionale, si deve fermare. Non così la poesia.
Davvero la poesia è tutto questo?
Sì. C’è qualcosa che deve esserci restituito, di cui ci dobbiamo riappropriare. Qualcosa che è stato nostro e che abbiamo perduto.
E lei quando scrive…
No. Il senso di tutto questo è dato dalla riflessione sulla poesia, non dalla poesia.
Che invece?
Sta nella vita, in noi, nelle cose.
E’ lì che si trova?
C’è più poesia in uno sguardo, in una luce, nella fatica di un vecchio, di quanta se ne trovi in tutti i libri che sono stati scritti.
E la si può vedere?
Oh sì!
In che modo?
Affidandosi alle cose, stupendosi di fronte ad esse, alla loro magia e alla loro bellezza.
E’ ancora possibile?
Si può stare nella vita come chi osserva, chi ascolta. Per riuscirci è indispensabile liberarsi del giudizio, che troppo spesso diventa il nostro modo di classificare la realtà, nel tentativo di padroneggiarla.
Questo, però, va bene.
Soltanto se non ci si spinge fino al punto di allontanarla, di renderla estranea. La grande poesia non giudica. Mai.
Ascoltandola affiora il senso di una grande responsabilità…
Che nasce dalla coscienza dello straordinario mezzo che la poesia è, di come sia in grado di aiutare, di aiutarci.
C’è qualcosa di etico in tutto questo.
Sì. Ingeborg Bachmann, una tra le più importanti poetesse austriache, spiega come il solo mezzo di cui dispone lo scrittore, per poter cambiare la realtà, sia il linguaggio. Non l’intenzione, né la scelta dei temi o l’oggetto di cui scrive, ma il linguaggio.
Una sfida interessante.
Certo. Il solo modo per poter cambiare il mondo, sostiene Bachmann, è di riuscire a dirlo in un modo diverso da come l’abbiamo trovato detto. Lo strumento, naturalmente, è il linguaggio.
Bene, Olivotto. Un’ultima nota, magari per i più giovani.
C’è un tempo intatto, in noi, il tempo dell’infanzia; un universo di volti, di suoni, le voci di chi ci ama, di chi ci protegge. Custoditelo gelosamente. E’ ciò che siamo, che saremo. Per sempre.
Sandro Dal Bosco
da "LA VALPOLICELLA" - Cultura e Territorio - Luglio 2006
Molto è stato scritto della poesia di Eros Olivotto. Di essa si è occupata la critica, analizzandone il linguaggio e le ascendenze culturali, indagandone le ragioni e i presupposti.
“Sipari”, la raccolta d’esordio del viaggio poetico di Olivotto, è un libro letto e apprezzato da molti, giunto alla seconda edizione e avviato ormai a un’ulteriore ristampa.
Intensi ed essenziali, lontani da ogni enfasi retorica, i suoi versi dettano una mappa del mondo, raggiunto e svelato nella suggestione della sua profondità.
“Un volto, un suono, una luce non sono che tracce” spiega Olivotto “in grado di ricondurci all’unità originaria che li determina e li fa esistere. Il linguaggio poetico è il solo che possa esprimere questa unità, permettendoci di comprendere ciò che non riusciamo a vedere”.
Invitato in varie regione d’Italia (Sardegna, Toscana, Marche, Abruzzo....), Olivotto collabora con diverse Biblioteche ed Associazioni del Veneto e del Trentino, in qualità di promotore culturale (molto seguiti i suoi corsi di tecnica poetica e di poesia contemporanea). Convinto della grande importanza che la poesia riveste in questo particolare attimo storico, l’autore ne sottolinea la capacità di restituirci intatto il senso del nostro tempo e, quindi, della nostra vita.
“Un tempo” dice in un’intervista sulla rivista di arte e cultura TOTEMBLUEART, che gli ha dedicato la copertina “in cui si assiste al goffo tentativo di sostituire l’interiorità con l’esteriorità e di far credere agli individui che sia possibile vivere occupandosi soltanto di ciò che è inessenziale”.
Per l’autunno è atteso il nuovo libro di Olivotto, una raccolta di liriche che racchiude il percorso poetico degli ultimi tre anni.
Beatrice Mariotto
da "L’ARENA" - 16 Marzo 2005
IL DESTINO DELL’UOMO RACCONTATO TRA POESIA E MUSICA
La vita, la morte, il ricordo: i cardini su cui cigola il destino umano. Ma anche inesauribili fonti di ispirazione per la poesia e per la musica. Un piccolo “cameo”, di quanto parole e note possano interpretare la profonda e variabile dimensione di queste “incorreggibili abitudini”, è stato proposto al pubblico alla locanda “Girasole” di Santa Maria di Zevio con il poeta Eros Olivotto e con il CrisTrio composto dalla voce di Cristina Reggiani e dalle chitarre acustiche di Angelo Gueli e Roberto Rezzadore.
Presente alla serata l’editore Pierluigi Perosini di Zevio, che ha ricordato l’apprezzamento di Mario Luzi nel ricevere i primi volumetti della collana “Paradigmi” (in cui figurano anche le opere di Olivotto), e il suo incoraggiamento a proseguire.
“ Questo non è il tempo dell’autoaffermazione o il tempo fatuo dell’estetismo” ha detto Olivotto presentando la sua raccolta “Sipari”, versi che sono pura meditazione fatta poesia. “E’ il tempo della vita, con le cose che amiamo e con questa alchimia strana, che ci dà la possibilità di rievocarlo”. Per l’autore la poesia non significa additare il vero, ma avvicinarsi ad esso, suggerirlo. Ci consente, negli istanti più disparati, di affacciarci con rinnovata energia e fiducia a tutto ciò che il futuro sta per approntare.
Con la canzone iniziale “Poesia”, risponde la voce personalissima, piena e rotonda come un cerchio, di Cristina Reggiani, la cui capacità interpretativa sorprende fondendosi con le emozioni del poeta.
Per il tema della vita Olivotto recita “E’ vero, anch’io ho cercato la vita/ ...E’ vero, anch’io ho rubato la vita/ ...E’ vero,anch’io ho amato la vita/per questo ho pregato, mentito, implorato,/anch’io molte volte ho tradito”.
E sottolinea quanto sia illusorio pensare che la nostra vita sia unica, irripetibile, mentre ciò che vi accade (il bene, il male, la morte, il mistero) è avvertito da tutti gli uomini da sempre e in ogni latitudine “noi partecipiamo soltanto a queste essenze, che sono eterne e immutabili”.
Come contro-canto ai versi, le canzoni “E dimmi che non vuoi morire” e “Don’t cry for me Argentina”.
Si parla ora della morte. Che il poeta considera la chiave per capire moltissime cose, il fulcro dell’esistenza, che non si spiegherebbe senza questo senso ultimo. “Ruberemo volti/all’avorio degli specchi./ E alle labbra chiederemo sorrisi/e parole/e preghiere per chi/ci ha dovuto lasciare”.
La risposta non può essere che in una canzone, “Candle in the wind”.
Per il ricordo: “Sai/c’è una striscia di terra che affiora dal fiume/quasi un ricordo/una pena sottile nel fondo del cuore”.
“ La poesia” dice Olivotto “ha una grande forza perché mette in moto l’immaginazione, la parte di noi che è più nostra, all’interno della quale giocano gli aspetti della nostra vita, e dove si accende una luce che è il ricordo, un dono straordinario ed enorme”.
E a rendere meno acuta quella “pena sottile”, ancora il CrisTrio con le canzoni “Yesterday” e “Dream a little dream”.
Vera Meneguzzo
da "PRIMA PAGINA" - Novembre 2003
LA SCOMMESSA GENEROSA E AZZARDATA DI OLIVOTTO
Quella di Eros Olivotto è una poesia che non cede alle lusinghe del tempo e della storia in quanto, testo dopo testo, sembra maturare un credito nei confronti della memoria e del patrimonio che porta con sé “C’è una striscia di terra che affiora dal fiume/ quasi un ricordo, // un pensiero lontano nel fondo del cuore.” E parte proprio dal fondo della scrittura la scommessa generosa e azzardata del poeta, che ha il coraggio di rimettersi in gioco, a misura della propria stessa capacità, accettando la sfida di un disegno più grande “Dio, ascolta. // Conoscemmo i giorni, // le notti, // lo splendore e la forza, // gli uomini.”
Identificarsi con la forza di un misterioso amore illimitato, costituisce il nodo della poetica di Olivotto. Non poesia religiosa in senso stretto, o balbettamento mistico, ma un inseguire la vivida e amorosa spinta creativa che determina in positivo la realtà anche nelle sue componenti meno gradevoli, per cui nulla del mondo, della sua evenienza, può dirsi estraneo a tale poetica. Nulla della vita e della morte, come dimostra la splendida terzina “Infine non potremo che pregare, // come i curvi cipressi allineati, // severi custodi del tramonto. //, può dirsi ovvio e inconsistente.
E l’incalzare degli interrogativi, che scandiscono la poesia di Olivotto, sottolinea una sottile inquietudine, che non trae origine dalla mancanza di risposte ma dall’intima esigenza di comunicare con uomini e cose, passato e futuro, mondo esterno e abissi, mai del tutto scandagliati, del proprio intimo, senza per altro la pretesa di assegnare al testo una funzione salvifica e assoluta, sgravata dalla trafila degli eventi “Chiedimi di lui dal ventre teso, // del suo passo incerto // che aduna tutto il tempo, // tutto l’uomo.”
Italo Bosetto
da "VERONA FEDELE" - Cultura&Spettacoli - 01 Giugno 2003
Sipari di Eros Olivotto è un piccolo libro di liriche, diviso in brevi sessioni, sipari appunto, che si aprono e subito si richiudono, lasciandoci intravedere la vicenda di un uomo,schivo, appartato dal correre frenetico dei più, consapevole di non appartenere pienamente al mondo dove pure deve vivere. Cfr la lirica intitolata ‘I poeti’: “Stanno, come piante, /nel vuoto delle rive./ Tenui piante di fiume,/ esili rami,/ chini su cose/ da altri lasciate“. O anche la lirica ‘Perché’: “Perché non c’è una gente che sia mia,/ una lingua originaria, un canto,/ perché non c’è una terra, una poesia,/ un lembo di memoria/che ci ancori sul fondo?”.
Questa consapevolezza della propria marginalità sulla scena del mondo, che certo i suoi versi non potranno cambiare, lo lega tenacemente alla quotidianità: agli affetti, ai luoghi, ai ricordi. Domina su tutto la figura della madre, nei cui occhi vedeva da bambino “dune di cristallo,/ la fabbrica incantata del domani,/ arcobaleni”. (Gli occhi di mia madre), e che continua ad essere presenza silenziosa e vigile, ora che è rimasta sola nella vecchia casa ed efelidi leggere le segnano il volto stanco (Veglia). Intensa emozione gli suscita la presenza o il ricordo della donna amata: “Quasi non ci fossi che tu/ sulla faccia della terra/ e il Dio dei tramonti/ sciogliesse quest’oro per te” (Per te); l’orgoglio della paternità “nel suo petto di giovane uomo” emerge nella lirica ‘A mio figlio’. Tuttavia anche gli affetti più cari si possono perdere d’un tratto; cfr ‘Un soffio’ “Il silenzio ha visitato la mia casa/ e mentre il buio siede nell’androne/ si è levato il vento. / Un soffio ha accecato la mia anima,/ travolto il mio cuore riverso”. Questa esperienza di perdita non suscita nel poeta moti di ribellione, ma una forma di virile accettazione, e comincia a rendergli familiare il pensiero della morte. Cfr la lirica ‘In me’: Sto con chi è stato. / E giace in me, / mi trapassa, / come un vento caparbio, / avido d’ali”. Cfr anche ‘Ignote tele’: Non torneremo indietro, / anima mia, / varcato l’ineludibile mare, / la scia si chiude alle nostre spalle”.
L’orizzonte in cui si compie l’esperienza umana del poeta non è il vasto mondo globalizzato, non è la città rumorosa che anzi gli procura disagio, ma un ambiente agreste popolato di alberi, d’acqua, di luce e di vento, dove è possibile contemplare la natura nel trascorrere delle ore del giorno e nel mutare delle stagioni, dove è anche possibile il colloquio con Dio. La voce di questo poeta non è stentorea, ma lascia nell’animo di chi legge echi persistenti. Il linguaggio rivela una trama di ascendenze culturali che vanno dal Pascoli ai più recenti poeti del Novecento; abbandonata ovviamente la metrica tradizionale, egli segue una sua particolare misura prosodica, sceglie versi brevi che fa emergere da grandi spazi bianchi alla maniera ungarettiana, ma evitando la concentrazione che genera “ermetismo”. La poesia del quotidiano, che richiama la grande lezione di Umberto Saba, si porge in una forma piana e accessibile, e tuttavia intensamente lirica, lontana dai moduli della prosa.
Enrica Mattiolo
da "TRENTINO" - Cultura&Società - 23 Maggio 2003
Domenica verrà presentato a Rovereto il suo primo libro di poesie: “Sipari”, scrigno come pochi, che ha il merito di riportare alle vette che gli spettano un genere così inflazionato da non essere più letto quasi da nessuno. Che Eros Olivotto (conosciuto per i romanzi “Nonostante tutto” e “Il Tempo Minore”) scrivesse di poesia era noto a chi lo conosceva, ma forse non era un mistero nemmeno per i tanti, sconosciuti lettori che determinarono il successo dei suoi libri: troppo densa e calibrata, la sua scrittura, irrorata dal profondo, informata da una misteriosa misura, per poter essere liquidata come mera prosa.Prosa che, se importante, non può che abbeverarsi alle stesse profondità della poesia, luogo di metafora, là dove ogni gesto diventa indispensabile.
Una “prima” trentina, quella di domenica alla “Blulibri”, ore 11, (e poi, il 30, alla Biblioteca Comunale di Ala), che segue da poco il battesimo in Veneto, regione in cui lo scrittore alense da anni risiede (e mercoledì scorso, 21 maggio, Olivotto è stato invitato all’importante rassegna “Poesiafestival” di Verona e della Valpolicella, che ha avuto Alda Merini e Mario Luzi tra i suoi ospiti).
Sulla qualità del libro non c’è molto da dire, basti citare Ilvano Caliaro, docente all’Università di Verona, che ha accettato di scriverne la prefazione: “Il temperamento lirico di Olivotto ci riporta ai grandi poeti del passato che fanno parte della formazione personale dell’autore”.
Eredità pesante, tanto da far tremare i polsi, ma che per chi non ha risolto la vita, e la propria intima esigenza di espressione, in un vuoto esercizio di stile, è motivo di ulteriore speranza. Di non cadere nel diffuso vaniloquio, di non cedere alle lusinghe di Narciso, di non annoiare il prossimo, di riuscire ancora a bruciare ciò che Musa non tollererebbe. E’ questo il segreto dei grandi poeti e noi siamo certi di averne, finalmente, incontrato uno.
Olivotto, noi ci siamo sempre sentiti in occasione della pubblicazione di romanzi, ma anche allora la sensazione era di non essere molto distanti dalla poesia…
Ho sempre pensato che la poesia non sia ciò che si scrive, ma ciò che si è; il nostro modo di stare nel mondo.
Poeta, dunque, lei si sente anche quando scrive un romanzo?
Si, perché da me esca una riga sono indispensabili volti, sguardi, luoghi, voci…come per scrivere un verso. Esperienze che poi si scordano, ma che un giorno riaffiorano, perché tutte le cose che si apprendono devono poter essere dimenticate per tornare. Per ritrovarsi, bisogna perdersi.
Il prossimo libro sarà ancora di versi?
Questo è un periodo in cui vivo di versi, ma il prossimo libro sarà un romanzo, ambientato a scuola. Lì è la mia vita, ne ho già scritto la metà.
Bisogna avere coraggio per pubblicare un libro di poesia, la gente è stanca e sempre meno disposta a concedere crediti.
Le gente si avvicina alla poesia nell’ istante in cui vi sente emozione, energia, e queste le devono essere restituite. Esistono delle responsabilità se soltanto oggi i lettori si stanno riavvicinando a questo tipo di produzione. Significa che per molto tempo abbiamo dato il nome di poesia, di arte, a ciò che non lo era affatto.
Cosa distingue, veramente, la poesia da ciò che non lo è?
Come diceva Rilke, i versi sono esperienze che smettono di appartenere a chi le ha scritte per diventare di tutti. Allora possono essere eterni, ma se nascono solamente da ubbie, da vezzi… C’è un termine che non si usa più, “ispirazione”; vi è insita una verità talmente fondamentale che, quando non si è ispirati, bisogna accettare di stare zitti.
Ciò che impressiona del suo libro, è la tensione che non si allenta mai; ogni pagina dice qualcosa di importante con un linguaggio incantato.
Credo che la vera misura di un poeta sia il suo linguaggio, che non può essere soltanto la risultante di una ricerca tecnica, ma dev’essere espressione di una ricerca interiore. Allora si fa canto, ritmo. Non dimentichiamo che la poesia nasce come linguaggio sacro, attraverso di essa i sacerdoti si rivolgevano agli Dei.
E oggi?
Oggi abbiamo un linguaggio che sta diventando mera “lingua d’uso”, piatta, piena di stereotipi, senz’anima. Il solo modo per restituirgli magia è fare versi, fare sì che il linguaggio smetta di essere un mezzo, per diventare parte di te stesso.
Anna Maria ECCLI
da "L'ARENA" - Cultura e Spettacoli - 24 Aprile 2003
Sipari, il nuovo libro di Eros Olivotto, è stato presentato alla libreria Gheduzzi Giubbe rosse. L’autore ha già pubblicato nel 1996 per Firenze Libri il romanzo “Nonostante tutto” e nel 2001, per Perosini editore, “Il tempo minore”. Ha introdotto Ilvano Caliaro, docente di lingua e letteratura straniera all’Università di Verona, che ha definito Olivotto poeta, senza retorica e senza ironia. “ Chi scrive dovrebbe avere qualcosa da dire “, ha
proseguito Caliaro “ma non solo, dovrebbe anche saper padroneggiare lo stile e in queste poesie entrambi i presupposti sono stati rispettati, adottando un temperamento lirico che ci riporta ai grandi poeti del passato, che fanno parte della formazione personale dell’ autore. La serata si è poi sviluppata intorno alla principale domanda che Caliaro ha rivolto a Olivotto: “Perché scrive e che cosa la induce a scrivere?” Olivotto,
nel suo fascinoso modo di dialogare a strappi, ha dato più di un motivo alla sua intima necessità di esprimersi in versi. “La poesia” dice Olivotto” è un linguaggio sacro; ci fa arrivare al senso ultimo del nostro stare qui. Il poeta, come dice Holderlin, è l’essere più inutile in assoluto, come anche il più pericoloso, perché ti lascia libero e sufficiente a te
stesso. Un verso, se è un verso, è la possibilità di cogliere un aspetto della realtà che non ci è noto e, come dice Octavio Paz, alle volte basta la lieve pressione di un pensiero per cogliere una cosa e svelarla ai nostri occhi nella sua più reale profondità.”
Olivotto ammette poi di amare un tipo di letteratura e di poesia che apre uno sguardo, rivelandoci il senso intimo nelle cose e nelle persone. “ Veglia” è la poesia all’inizio del libro e rappresenta il suo modo di aprirsi a tutto un mondo interiore, con il quale l’autore si misura per scrivere la profondità dei suoi sentimenti e delle sue esperienze, ripercorrendo con nostalgia il passato, oltre che il presente, e in particolare il suo rapporto con la madre, figura venuta a mancare prematuramente e che è presente, in modo implicito o esplicito in molti dei suoi versi. E’ evidente che per Olivotto scrivere è gioia vera, emozione forte; può attraverso questo esprimere la sua reale essenza.
M. Elena Fratton
da "I QUATTRO VICARIATI" - Giugno 2002
Quando nel’95 uscì “Nonostante tutto”, in pochi avrebbero scommesso sulla fortuna di quell’opera, un racconto brevissimo, scritto in un linguaggio scarno, essenziale, in grado, però, di costringere il lettore a un’incessante riflessione sui temi di fondo dell’esistenza. L’interesse suscitato nella critica, sta probabilmente alla base di quell’esordio fulminante e del grande favore dimostrato nei mesi a seguire da parte della stampa e del pubblico, nei confronti di un’opera la cui letterarietà è, come fatto osservare da più parti, di carattere specificamente filosofico.
Poi di Olivotto si è perduta la traccia, un lungo silenzio interrotto soltanto dalle notizie di qualche intervento pubblico in favore della letteratura o della poesia, fino alla pubblicazione, nello scorso dicembre, del nuovo romanzo “Il tempo minore”, inserito nella prestigiosa collana “I Fiordalisi”, dell’editore Perosini di Verona.
Intenso, breve, ritmato da rivelazioni veloci, paratattiche, a stringere il passo cadenzato da un linguaggio nevralgico, ma anche da una tempra descrittiva non comune, il “Tempo minore” si avvale di una scrittura che cerca sempre lo spaesamento di un tempo interiore lungo, fatto di silenzi e di ricordi, di impressioni e di corrispondenze della natura, per infrangere il flusso rapido ed insipido di avvenimenti più o meno controllabili. La vicenda, più che narrata per esteso, viene suggerita, sottolineandone lo specifico di romanzo breve.
Rispetto a “Nonostante tutto”, l’ultimo lavoro contiene un elemento nuovo e fondante come la coralità, che evidenzia un sostanziale passo in avanti nella scelta tematica dell’autore: al registro monocorde della vicissitudine di Anna in “Nonostante tutto”, ora subentrano le trame parallele di Franco e Maria, di Lorenzo e Stefania, di Alessandra e Federico, intersecantesi con quelle di Ada e Laura. Una coralità grazie alla quale, proprio con Ada e Laura, Olivotto ha creato due figure la cui presenza costituisce il punto di rimando costante al procedere scandito dell’esistenza altrui.
Oltre il procedere narrativo in sé, il libro cattura però in quanto epifania delle apparizioni: lo conferma quella del mendicante, singolare personaggio carismatico che non interferisce nella vicenda, la cui presenza, tuttavia, è così marcata ed emblematica da divenire indispensabile all’idea stessa del racconto.
Il rapporto tra Franco, protagonista centrale, e il mendicante, si inserisce quindi nel clima allegorico della narrazione, la avvalora, poiché in Olivotto i rapporti umani, pur sembrando provvisori, in virtù di tali figure, perdono la loro precarietà, acquisendo valori primari di comunanza e di solidarismo.
La scrittura è lieve, morbida, fluente e i personaggi si muovono in un ambiente essenziale ma efficace.
Felici, significative alcune espressioni: “…dalla sua raccolta dolcezza” (tutta la scena sembra un interno di Kieslowski, ove la luce gioca sugli oggetti e sulle persone), “sbigottita meraviglia”, “Lontano, alle loro spalle, il sole si appoggiava all’orizzonte. Poi, lentamente, si sciolse nel mare”.
Il “Tempo minore” parla altresì di un tempo quasi tangibile, privo di suggestioni e di slanci: decine di ciechi morali popolano il nostro oggi, ciechi che rifiutano la luce incerti, timorosi di incontrare in essa la verità possibile.
Ecco il perché dell’esistere timidi quali fossimo intrusi, come sospesi sul vuoto: se i fatti sono l’accadere, esso può tramutarsi in sofferenza o in speranza in base a come viviamo e a quello in cui crediamo.
Solo in tal senso si può comprendere “l’errore” di cui parla Maria, che alimenta la paura della morte e rende sfumata, problematica, la presenza di Dio.
Dal punto di vista strettamente linguistico, ci sembra importante un’ultima considerazione. La riconoscibilità del linguaggio di Olivotto, infatti, è data dalla poeticità di cui esso è intriso e che ne costituisce la struttura profonda. Di questo sembra essere perfettamente cosciente l’autore che, nelle battute finali di “Il tempo minore”, fa dire al suo personaggio principale: “Pensò alla poesia, la sola forma di preghiera rimasta, e alla tristezza di un mondo in grado di sottrarsi, di rinunciare ad essa”.
In poche righe, come sua abitudine del resto, Olivotto riassume la funzione che da sempre gli uomini hanno attribuito alla poesia, il solo linguaggio letterario che consenta loro di rivolgersi agli dei, e quindi il suo valore sacro e irrinunciabile.
Perciò il suo nuovo lavoro, una raccolta di poesie la cui pubblicazione è prevista nel tardo autunno di quest’anno, ha già suscitato l’attenzione riservata ad un libro atteso.
Da “ Cultura e società - “Alto Adige” 12 Dicembre 2001
Molti anni (cinque, per l’esattezza) separano questo romanzo da quello che fu il debutto letterario fulminante di Olivotto, avvenuto nel ’96 col romanzo “Nonostante tutto”. Intenso, breve, ritmato da rivelazioni veloci, paratattiche, a stringere il passo cadenzato da un dialogo nevralgico, ma anche da una tempra descrittiva non comune. Cinque anni per incubare questo secondo lavoro dal titolo emblematico, che allude forse al soffio divino che agita le cose e alla nostra inconsapevolezza, allo smarrimento esistenziale che coglie laddove vi sia un sussulto di verità e alla nostra quotidiana distrazione. La scrittura di Olivotto cerca sempre, in effetti, lo spaesamento di un tempo interiore lungo, fatto di silenzi e di ricordi, di impressioni e di corrispondenze della natura, per infrangere il flusso rapido ed insipido di avvenimenti più o meno incontrollabili.
Olivotto, qual’è il tempo minore?
E’ quello dello scarto: la bellezza si trova al di sotto delle cose, e là c’è anche la salvezza.
Una salvezza destinata solo ai poeti?
E ai bambini, Pascoli lo dice chiaramente: non sarai mai un poeta se non ti farai guidare dallo stupore dei bambini. Nessuno capisce quanto un bambino, nessuno sa cogliere, quanto lui, la lingua ancestrale e simbolica del mito.
Il tempo è un grande protagonista della sua scrittura.
E’ “il” protagonista, è l’astratto che lascia il suo segno sulla materia. Ma è strano: noi lo amiamo negli oggetti di cui ci piace circondarci, ma non lo sopportiamo dentro di noi. Ecco, anche capire questo fa parte di quello scarto cui accennavo prima.
Ma di cosa parla esattamente il suo romanzo?
E’ la storia di un incontro, trattata con molto pudore.
In verità, intorno a quell’incontro ruota tutta una visione filosofica...
Sì, la storia diventa possibilità di trattare di molte altre cose. I temi del tempo, della morte, della presenza di Dio mi affascinano e sono sempre presenti nella mia scrittura.
In che modo lei è cambiato, nel tempo?
Rispetto a ieri sento meno la necessità di indossare maschere. Arriva un’età in cui sei più disposto ad ascoltare gli altri. E a non commettere un grave errore.
Quale?
Quello di identificare una parte del vivere con il vivere stesso. Io amo la letteratura ma dire che la mia vita è la letteratura non ha senso. La vita è di più. Scambiare una parte per il tutto, questo è uno degli errori più gravi che si commettono spesso.
Con quale augurio si congeda da questo suo secondo romanzo?
Spero che possa suggerire a qualcuno una voce, una parola...
a. e.
Da “L’Arena” - Venerdì 21 dicembre 2001
Eros Olivotto, originario di Ala (TN) ma ambrosiano di adozione da un ventennio, presenta oggi alle 20.30 alla sala congressi del quartiere fieristico il suo romanzo “Il tempo minore”. Olivotto sta tenendo, in collaborazione con la biblioteca comunale del capoluogo, una serie di incontri sulla poesia. “Il libro”, spiega l’autore, “è scaturito dal mio giudizio che non esista un tempo migliore o uno peggiore in cui vivere. E’ vero che l’attenzione alla spiritualità è andata via via scemando, non perché gli uomini siano malvagi, ma perché oggi si vive all’interno di un sistema che non ci induce a riflettere, tuttavia in ogni essere umano rimane intatta la nostalgia dell’individualità, perché abbiamo la coscienza che adattandoci a questa maniera di vivere siamo tenuti a pagare un caro prezzo. C’è in noi la consapevolezza di un livello di realtà profonda che rivela il senso e la ragione delle cose. E’ questo il terreno di indagine della poesia e della letteratura, che si pone come il tentativo di raccontare i rapporti invisibili che legano tra loro le cose e che costituiscono il tessuto di cui è intrecciata la realtà”.
Il libro fa parte della collana “I Fiordalisi” dell’editore Perosini e narra la storia di un incontro tra un autore di successo e una giovane attrice. Il teatro rappresenta i luoghi dell’esistenza, dove si intrecciano e si dipanano le inquietudini e le contraddizioni di tutti. E’ nel tempo che i fatti accadono e il tempo ce ne svela la ragione.
Il libro usa un linguaggio che, pur essendo contemporaneo, è comunque ricercatissimo nella raffinatezza linguistica.
m.u.
Da “Alto Adige” - 26 Settembre 1995 Ricercando l’essenziale
La galleria “Le due Spine” ha da poco presentato il suo primo romanzo: “Nonostante tutto”. Eros Olivotto nasce ad Ala di Trento il 21 Marzo 1950. Di natura schiva, solo dopo anni di frequentazione letteraria ha deciso di uscire allo scoperto. E con un buon libro. Un moderno viaggio nell’impervio umano, tra i dolorosi picchi esistenziali, resi con un linguaggio scorrevole ed essenziale. Anna, la protagonista, assomiglia alla persona che fu il centro della sua esistenza: la madre.
Come ha cominciato a scrivere?
E’ stato un modo per acquistare sicurezza. La mia parola, una volta, era meno fluida di oggi e questo mi faceva soffrire.
Cosa cerca, con il suo romanzo?
Qualcosa di spirituale. Considero la poesia e la letteratura porte d’accesso, che danno la possibilità di avvicinarsi agli aspetti più sfuggenti della realtà.
Vale a dire?
C’è una maniera piena, fisica, di vivere. E’ anche la più bella. Ma solo esplorando strade diverse si riesce a cogliere le cose nella loro essenzialità; a coglierle anche per quello che non sono.
Una strada iniziatica?
Non lo so, di sicuro la strada della “distanza”. Finchè si è coinvolti dalle cose, queste diventano indispensabili. Non c’è, allora, la possibilità di entrare nella dimensione del tempo e si vive unicamente in funzione di ciò che si è. Questo è un atteggiamento esistenziale terribile, non etico. Nei fatti c’è una carica di volgarità.
Sarà anche autolesionistico…
Non c’è dubbio. Catturati dalle cose, dai fatti, siamo talmente fuori di noi stessi, lontani… Non a caso Elsa Morante definisce la cultura come ciò che rimane allorché si è dimenticato tutto.
C’è qualcosa di orientale in tutto questo.
Ah, cultura di grande fascino. In Oriente, ciò “che è” viene visto in funzione di ciò che sarà. Questo permette di cogliersi come uomini in viaggio, è un convergere di potenzialità in cui il futuro è nel presente. Qui è tutto molto più riduttivo, statico, l’uomo è unicamente effetto di ciò che è stato, del passato.
C’è meno spazio per l’immaginazione…
E per la poesia; con la poesia si scorgono i segni di ieri, ma anche quelli di domani. Ecco perché la poesia deve entrare nella vita.
E nella morte…
La morte appartiene al presente, è già in noi e nelle cose. Non si ha piena coscienza della vita se ci si ostina a ignorarla. Prendiamo Marquez, in lui tutto ritorna, ma non come spettro…
Cos’è il tempo?
E’ la dimensione più intima. Le persone sconfitte sono coloro che non riescono a sopportarla. Ma prima o poi la vita, con i suoi carichi, le sue tempeste, ci mette al suo cospetto.
E l’arte?
La rinuncia ad avvicinarsi alle cose con certezze, la capacità di intendere l’esistenza in maniera non ovvia, appunto. C’è un atteggiamento affine tra l’artista e il rancoroso. E’ gente di margine, che condivide derisione e alterità. C’è una sorta di fiamma iniziale, il pensiero divergente, che li accomuna. Certamente, poi, gli esiti sono diversi.
C’è un motivo preciso per cui la protagonista del suo romanzo è una donna?
E’ stata una scelta inconscia. Solamente a metà romanzo mi sono reso conto che quella donna era mia madre, il mio centro affettivo. L’avevo dentro di me.
L’esperienza del dolore è inevitabile o necessaria?
Indispensabile; per agganciare la dimensione etica devi necessariamente invadere la sfera del dolore. Non è sufficiente pensarlo, per avere qualcosa di più dentro di noi.
Un autore che ama?
Garcia Lorca, perché in lui c’è la terribile capacità di leggere le cose più ovvie riconducendole al mito.
Come definirebbe la vita?
Un intarsio di fili sottili e se si hanno occhi solo per quello che si vede, si spreca tempo. Ma c’è chi in nome di questa impossibilità di sguardo, esclude, umilia, soverchia.
L’esperienza più forte?
Due. La morte di mia madre e la nascita di mio figlio; in entrambi i casi, all’improvviso, sono tornate in luce le cose dimenticate.
Una esperienza bella?
Quella del puro stare. E’ l’atteggiamento di chi non ha più niente da difendere.
Una cosa che ha imparato?
Che tutto è il rovescio di tutto: sul fondo della sapienza c’è l’ignoranza e in fondo a questa la sapienza.
Lei non scriverebbe mai…
Per dimostrare qualcosa a qualcuno. Lo troverei sospetto. L’arte non dà risposte oggettive e per vivere risposte non ce ne sono più.
Dio è morto?
No. Ma è diventato difficile e tentiamo disperatamente di dimenticarlo.
A. E.
Da “Il comunale” n° 22 Dicembre 1995
Il romanzo di Eros Olivotto, che è stato tenuto a battesimo con successo negli ospitali avvolti della Gallerie Le Due Spine di Rovereto, è tale non per il numero delle pagine, che in fondo sono solo cinquanta, ma per l’intensità della sua “durata” psicologica e spirituale. Potremmo definire “Nonostante tutto” come un romanzo poetico e insieme filosofico, probabilmente per le stesse ragioni. La poesia è infatti uno strumento per andare oltre il linguaggio quotidiano e oltre il linguaggio della razionalità riconosciuta, per riuscire ad esprimere quello che normalmente non ci riesce di dire ma che ci preme per la nostra identità e per la nostra “salvezza”. Nel tempo stesso è romanzo filosofico perché elabora nella narrazione una lunga confidenza con il concetto di tempo, fatto di passato, presente e futuro, per arrivare nel fuoco dell’esperienza più bruciante e dolorosa, quella della protagonista, Anna, ad una vera e propria coscienza del “tempo” tra memoria e nostalgia, tra passione e speranza, come una lunga tradizione filosofica, da Agostino d’Ippona a Husserl, ha consegnato alla nostra riflessione. Proprio per questo il libro di Eros Olivotto è da tenere sul comodino e da consultare nel corso del tempo: le sue pagine non ci danno soluzioni, ma ci aiutano a vivere con più gratuità e con più disponibilità nei confronti dei labirinti e dei terremoti dell’esperienza, vieppiù quella contemporanea, così priva di punti di riferimento.
Mario Cossali
Da “Didascalie” n. 7, Novembre-Dicembre 1998 “Nonostante tutto” di Eros Olivotto
Nel 1995 esce “Nonostante tutto”, il primo romanzo di Eros Olivotto, a cura di Firenze Libri, la casa editrice toscana, che ne curerà la distribuzione e la diffusione a livello nazionale. “Nonostante tutto” è il racconto di un itinerario interiore, un viaggio la cui meta è data dalla possibilità di scorgere un senso, e quindi di attribuire un significato profondo all’esistenza. La protagonista è Anna, una donna che per quanto provata dalla vita e dal dolore è comunque in grado di non arrendersi e di continuare a ritenersi la vera protagonista della propria vicenda.
Uno dei temi centrali del racconto è il tentativo filosofico di una definizione del tempo, inteso come dimensione della coscienza, e cioè come quell’insieme di pensiero e di relazioni, in grado di consentire la comprensione della vita e delle sue ragioni più profonde.
Nel riferirsi alla lettura, non si può prescindere dallo stile, scarno ed essenziale; uno strumento indispensabile per creare l’atmosfera rarefatta che colloca la storia in una dimensione atemporale.
Per capire perché “Nonostante tutto” si affidi a una trama esilissima, quasi inesistente, è sufficiente rifarsi alla premessa e quindi alle parole con cui l’autore spiega l’intento del suo lavoro: “Non sempre la vita fluisce precisa e ordinata come un racconto. A volte, la nostra possibilità di comprensione e le nostre parole, non sono sufficienti a spiegare i fatti, a definirne il significato. Quando questo accade, prosegue Olivotto, affiorano silenzio e fatica, ogni cosa si fa frammentaria e l’indeterminatezza diviene lo sfondo per il nostro sentire. Nonostante tutto, conclude l’autore, è il tentativo di raccontare quest’indeterminatezza”.
Nel corso del 1999 sono attesi due nuovi lavori di Olivotto. Sono infatti di prossima pubblicazione: “Il vento, l’ombra, l’argento”, una raccolta di poesie, e il secondo romanzo “Il tempo minore”.
Redazionale