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I FRAMMENTI DELL’UNITÀ
profilo critico di Annamaria Cielo


Quando una madre muore lasciando il figlio in età immatura, nonostante rimanga come eredità la sua educazione, il suo amore e la saggezza, nessun uomo, dalle soglie inquiete della vita adulta fino alla morte, poi raccoglie pace. Sempre, gli rimane la pena per la perdita, per un qualcosa di interrotto, disunito, inappagato, creando una confusione tra l’essere adulto e il bambino “abbandonato”.
Sempre!// C’è qualcosa di così definitivo/ in questa parola,/ se riferita a qualcuno che ci manca.

Opera “pura”, questa del poeta Eros Olivotto, in quanto capace di abbracciare il sé adolescente e, senza alcuna illusione, rivivere i luoghi, le atmosfere, il tempo trascorso con la madre, ma con un sentimento maturo e così intenso da ripopolare il sé adulto e ricomporlo.
La
simbiosi con la figura materna era inevitabile: unico il loro respiro, il loro battito. I ricordi cercano il “re”, cioè la sintonia con la verità, perché in ballo c’è il riavere un nuovo equilibrio interiore. Anche nel silenzio ( torno a te,/ che sceglievi il silenzio,/perché ospita parole diverse,/..), il poeta non smette di attendere l’affetto di lei e di estendere il suo affetto con un canto profondo.
C’è un
segreto qui, che la parola sa completamente conservare. Leggendo, ascoltando o recitando i versi ammirabili di Olivotto si ha l’impressione fuggitiva, ma piena di un’assoluta certezza, di toccare il segreto stesso della poesia, del suo svelamento. Al centro di tutto questo, una tecnica con due pennelli: uno per lo sfondo pieno di spazio e tempo, l’altro per i dettagli di immagini, movimenti, suoni.
Dentro il tempo,/gli anni, /le tue mani fidate.// Sempre qui.// E il mattino,/le labbra,/ le parole.
La stessa tecnica è in quasi tutte le poesie, meglio evidenziata nella seguente:
Chiedevi aiuto.// Mostrasti sicura il tuo grembo, /il tuo povero corpo sfiorito.// Ero un ragazzo.// Perdona, ti prego,/ la mia paura.
Il dolore del rimorso per qualcosa che da giovane non si è capito, come fu lo svolgersi della malattia della madre, si legge al completo nello sfondo di questi versi. Ma i dettagli, legati al movimento di un gesto, tremano ad ogni parola: per una madre non è facile parlare della morte a un figlio adolescente. La fuga fu svelare la morte con un gesto, davanti a lui, mostrando solo i dettagli della verità.
Unico centro che riordina il tempo: la pietas, ma la pietas passa dalla condivisione. E la condivisione da parte di Eros, a quel tempo, non arrivò. È questo un episodio cardine della raccolta. Chiedendo pietà, Eros raggiunge la pietas filiale e si ricongiunge con la madre. C’è “lo sposalizio”, un raccontarsi dove il “tempo ci raggiunse”.

Eros Olivotto non va
mai al di fuori della realtà. Come gli Zenisti, considera un intreccio di particolari, ognuno dei quali si realizza attraverso il rapporto con gli altri particolari, non potendo altrimenti sopravvivere se non nell’insieme.
Il “lavoro” è difficile perché
il sentimento è legato all’assenza, luogo dalle forme di “un calice vuoto/un duro grano di roccia.”. Dove il “vuoto” è lo spazio irrecuperabile e la “roccia” è la forza della memoria: Ti avevo perduta.//Ogni cosa/sarebbe mutata.//Dire, /dirti;/se solo avessi potuto,/per pochi, preziosissimi istanti,/se io,/noi ...//Ogni cosa,/ sarebbe mutata.

Come si fa a tranciare il vuoto, mettere un ponte sopra ciò che manca nel vissuto, e colmare la distanza di un affetto? Olivotto ha sempre a cuore la qualità dell’amore, nelle sue più ampie sfumature. La sua parola, semplice solo in apparenza, soffre, sconfina, sospinge oltre, fino alla meditazione. Nessuna dipendenza dal misticismo. Trancia il vuoto facendo girare la ruota del ricordo, facendo un quadro unico del tempo, senza misura, fino a raggiungere il cuore:
ecco i tuoi gesti ripetersi infiniti.// Ogni volta più precisi,/mai uguali.// Fino a scivolare dalla mente e raggiungere il cuore .
Affiora il tuo volto,/da distanze imprecise,/senza misura.//Come un frammento.//Una nitida traccia di luce. ’è di te,/ in ogni oggetto,/ un senso riposto.// Come l’impronta di un tempo intatto.// Un ordine,/ che mi appartiene.

Poesie brevi e a struttura aperta, cioè che non servono il desiderio immediato di fermare la sensazione e la visione, ma lavorano sull’azione, sul dinamismo interiore, permettendo di raccogliere il semprevivo. Piangerò, pioggia, perduto, tornare, distratto, impreciso, impronta, ordine, sguardo ... Sono parole che vibrano di zenki, cioè di un dinamismo meditativo, il quale partendo dai frammenti dell’intimo li unisce ai sentimenti del mondo.
Qui non c’è la giovinezza occlusa, l’energia non è assediata,
nulla è incarcerato. Le parole cono corpi carichi di nudo, corpi vigorosi. A volte sono barcollanti – ( Infine,/ svanirà la luce). Oppure sono parole sostenute da un “filo” (Ricordo una stanza./ Un piccolo specchio inondato di sole...), ma tutte sono colte nella tensione dell’incontro. L’incontro avviene con un abbraccio: Vorrei la quiete, ora,/ delle tue braccia,/ il rigoroso fervore della fronte, /dei capelli raccolti.

Mi sembra che in “Elegia per la madre”, dove elegia sta per canto commosso, Olivotto abbia dato
alla pausa degli spazi uno stato indicativo inedito. Qui, gli spazi sono non solo attesa o sospensione, ma segnalano la permanenza della solitudine come stato attivo, sono come una città dell’infanzia dove si cresce e ci si trasforma.
Molto importanti, dunque, gli spazi, che nelle ultime poesie diventano più rari o nulli, non a caso, ma perché la solitudine va svanendo e il poeta porta la figura materna dentro di sé:
E un giorno,/storditi dall’autunno,/o dal cupo frastuono del mare,/dimentichi del tempo,/ci attarderemo./Senza fretta,/senza un gesto, una parola./Forse felici.
Il poeta ha fatto il cammino per salvare una terra lontana, da cui la madre è venuta, e che porta ancora con sé, dentro di sé. La speranza di rincontrarla in un Oltre ha la matrice nella Fede, che viene da un mondo domestico, naturale, insegnato dalla stessa madre, la quale chiamava preghiere quelle piante – e diceva: credi,/altrimenti nulla avrà mai senso.

Concludendo. Elegia per la madre è l’esito di un incontro tra icone, incroci e nodi. È anche l’esito di un riscatto, ma tutto avviene nello statuto della poesia.
Il poeta ha esplorato la sua vita con la madre e ora sa. E salva se stesso. Ogni frammento dei ricordi si attiva per cercare l’unità significante, cioè una luce e una quiete capaci di colmare il
vuoto. Tutto avviene come in un diario di trasformazione, in cui i corpi e le parole cercano l’abbraccio.
Leggendo e rileggendo i versi, ho capito di dover lasciare alle spalle ogni richiamo alla tradizione critica, che lega un autore ad altri. Qui, sarebbe un lavoro di sottrazione, perché tanta è la commozione, l’assenza di mistificazione della parola, il mistero dell’uomo a cui è affidato il pianto del bambino, che il perimetro è unico, come universale.


Annamaria Cielo




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